sabato 7 marzo 2020

IIA e IIH LETTERATURA: DECAMERON PRIMA PARTE


Cari ragazzi
Iniziamo (per la IIH) e continuiamo (per la IIA) il nostro studio del Decameron leggendo altre novelle oltre a quelle già analizzate in classe. Prima però facciamo un breve ripasso leggendo (leggi studiando 😀) il materiale qui di seguito. 

Il Decameron è l'opera principale di Giovanni Boccaccio, scrittore fiorentino che nacque nel 1313 e morì nel 1375. Boccaccio fu testimone durante la sua giovinezza della pestilenza che afflisse Firenze provocando un numero spaventoso di morti. Questo episodio tragico della sua vita verrà riportato nel Decameron ed è il motore della vicenda. La storia infatti ha come protagonisti dieci giovani (sette donne e tre uomini) che, per fuggire la peste, si rifugiano in campagna dove uno di loro ha un palazzo. Qui per passare il tempo raccontano ogni giorno dieci novelle, una a testa. La durata del soggiorno è di dieci giorni (Decameron = dieci giorni:"deca" in greco vuol dire dieci; "emeron" invece vuol dire giorno), per cui le novelle saranno in totale cento.

Come si organizza la brigata dei dieci giovani:


Ogni giorno i dieci giovani eleggono un re o una regina che ha il compito di fissare il tema della giornata al quale tutti gli altri narratori dovranno attenersi. Al solo Dioneo, per la sua giovane età, è concesso di non rispettare il tema fissato.

La storia dei dieci giovani che sfuggono alla peste e decidono di svagarsi raccontando delle storie è dunque la cornice narrativa, cioè una storia che introduce e collega tutti gli altri racconti.

Cosa leggeremo


Leggeremo un passo della cornice narrativa e tre delle cento novelle, intitolate rispettivamente Federigo degli Alberighi, Calandrino e l’elitropia, Il maiale imbolato.



Focus: l’autor


Giovanni Boccaccio nacque nel 1313 a Certaldo (o a Firenze). Figlio illegittimo di un ricco mercante e di una donna di umile condizione sociale, quando compì quattordici anni, il padre lo prese presso di sé e lo condusse a Napoli, per educarlo e istruirlo nell’arte della mercatura. Il soggiorno napoletano fu un periodo molto felice per il giovane Boccaccio, che grazie alle conoscenze del padre poté frequentare la migliore società: partecipò così a feste di corte, si appassionò di letteratura e di poesia, ebbe avventure amorose, compose varie opere in versi e in prosa. Questa vita spensierata e benestante si interruppe bruscamente nel 1340, quando gli affari del padre subirono un tracollo. In seguito a questo fallimento economico Giovanni Boccaccio e suo padre tornarono a Firenze, dove condussero una vita molto modesta. La situazione peggiorò ulteriormente nel 1348: quell’anno, infatti, Firenze fu colpita da una tremenda epidemia di peste che fece migliaia di morti, tra i quali anche il padre di Boccaccio. In questa drammatica situazione Boccaccio iniziò la composizione del suo capolavoro, il Decameron, che ebbe subito vasta diffusione.
Dopo il 1350 la vita di Boccaccio subì una svolta.
Grazie alla sua fama di scrittore ottenne dal Comune fiorentino alcuni importanti incarichi diplomatici che lo portarono a visitare varie città italiane e a conoscere personalità prestigiose: tra esse, il poeta Francesco Petrarca, cui si legò di una duratura amicizia  e con cui condivise l’amore per gli autori latini e per i manoscritti antichi.
Nel 1373 il Comune di Firenze gli diede l’incarico di leggere e commentare pubblicamente la Commedia di Dante Alighieri, opera che Boccaccio definì “divina” per la sublime perfezione dello stile e per l’importanza dei contenuti.


Le letture pubbliche ebbero molto successo ma si
interruppero a causa della salute malferma di Boccaccio, che morì nel 1375 a Certaldo.

L’opera principale: il Decameron

Che cos’è il Decameron. Il Decameron (in greco, “dieci giornate”) è una raccolta di cento novelle di argomenti diversi e di varia lunghezza, composta da Giovanni Boccaccio tra il 1349 e il 1351. È un’opera di straordinaria importanza per la letteratura italiana perché introdusse il genere della novella (o racconto, come lo chiamiamo oggi) sino ad allora sconosciuto, e perché presenta ambientazioni e personaggi ispirati
alla vita reale e quotidiana del Trecento. Le cento novelle sono collegate tra loro da una storia-contenitore, detta a “cornice”: in seguito all’epidemia di peste che ha colpito Firenze, dieci giovani di buona famiglia (sette ragazze e tre ragazzi) decidono di allontanarsi dal pericolo del contagio trovando rifugio in una bella villa di campagna. Per dieci giorni


durante le ore più calde, i ragazzi si ritrovano nel giardino della villa e raccontano ognuno una storia: perciò, alla fine, le novelle sono cento.

Lo sfondo storico delle novelle.

Le novelle del Decameron sono ispirate alla vita quotidiana e materiale dell’Italia del Trecento: molte, infatti, sono ambientate nelle grandi città dell’epoca, come ad esempio Firenze e Napoli, di cui lo scrittore descrive quartieri, vicoli, piazze e luoghi di ritrovo; i personaggi sono ugualmente ispirati alla realtà e si trovano coinvolti in situazioni molto diverse: a volte comiche, a volte tragiche, a volte sentimentali. L’ambientazione realistica è una grande novità del Decameron: sino a quel momento, infatti, personaggi e situazioni tratti dalla contemporaneità erano ritenuti indegni di comparire nelle opere letterarie importanti.

I temi.

Principale    obiettivo    del    Decameron    è
divertire.  Le  novelle  sono  ricche  di battute,


colpi di scena, avventure mozzafiato, amori impossibili, scherzi e tranelli: tutti ingredienti indispensabili per appassionare e avvincere i lettori.
Il divertimento, però, è solo un aspetto dell’opera; il Decameron offre anche molti spunti di riflessione e di conoscenza sia della mentalità dell’epoca, sia di vizi e di virtù tipiche dell’animo umano.
Tra le qualità umane valorizzate da Boccaccio, la principale è l’intelligenza (la saviezza), a patto che essa sia accompagnata da gentilezza, decoro e cortesia; in caso contrario, l’intelligenza diventa egoismo, meschinità, indifferenza. L’uomo intelligente ha l’umiltà di imparare qualcosa anche quando la Fortuna (cioè il caso imprevedibile e bizzarro) gli complica la vita. Al contrario, il difetto peggiore per Boccaccio è la stupidità: chi è stupido e credulone merita di essere preso in giro, beffato e danneggiato perché non fa uso dell’intelligenza

La cornice narrativa


Dall’Introduzione al Decameron (la parte in corsivo è il testo originale di Boccaccio)

Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn'altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza…,

…la quale, forse mandata da Dio per punire i nostri peccati, mieteva molte vittime. Tutti i provvedimenti che si presero furono inutili: la città fu ripulita, si fecero processioni per supplicare i santi ma il contagio non cessava di diffondersi. Quando la peste contagiava qualcuno, all’inguine o sotto le ascelle gli spuntava un rigonfiamento, delle dimensioni di una mela o di un uovo, che il popolo chiamava “gavocciolo”. In una fase più acuta dell’epidemia i gavoccioli presero a spuntare in tutte le parti del corpo. A volte invece di questi rigonfiamenti si manifestavano macchie nere o livide sulle braccia, sulle cosce e su tutto il corpo, ad alcuni grandi e rade, ad altri minute e fitte. Ed esattamente come i gavoccioli, anche queste macchie erano, per chi se le vedeva comparire addosso, indizio di morte certa.

Questa pestilenza fu terribile: si avventava sui sani come il fuoco fa con le cose secche e unte quando gli sono molto vicine. Non soltanto il parlare e frequentare gli infermi trasmetteva ai sani la malattia, ma anche il semplice toccare panni contagiati o qualunque altra cosa fosse stata


adoperata o sfiorata da chi già era stato contagiato. La pestilenza fu così forte che passava anche dagli uomini agli animali: le bestie che toccavano le cose di qualcuno morto a causa del contagio morivano in poco tempo.

Io stesso ho assistito a questa scena: due porci si misero, secondo il loro costume, a rivoltare col grifo e con i denti degli stracci che si trovavano in mezzo alla via, appartenuti ad un appestato. Nel giro di qualche ora entrambi caddero stecchiti sopra quegli stessi stracci, come se fossero stati avvelenati.


Laboratorio 



Rispondi su un file di word

In che anno scoppia la peste a Firenze? Cosa sono i “gavoccioli”?
Oltre ai gavoccioli, cosa poteva apparire sul corpo di chi aveva preso il contagio? A quale scena assiste l’autore?
Ricopia  la frase nel testo evidenziata in grassetto:

.........................................................................................................................

Si tratta di una similitudine, ossia di un paragone introdotto da “come”, molto efficace perché rende bene la velocità con cui la pestilenza si diffondeva a Firenze.

Aiutandoti con il dizionario spiega il significato delle seguenti espressioni: Macchie livide; Indizio di morte certa
Adesso prova a riscrivere in Italiano moderno l’inizio del brano (è la parte in corsivo)


Focus: Uomini e topi

Leggiamo questa pagina scritta dallo storico A. Prosperi


Tra il 1347 e il 1351 un flagello biblico si abbatté sull’Europa: la Peste Nera. La 
gente si ammalava e moriva in quantità incredibili, in tempi brevissimi. La minaccia della scomparsa della specie umana, sotto l’attacco di un nemico invisibile e spaventoso, fu allora non un timore lontano, astratta, ma una prospettiva concreta. Nel breve spazio di qualche ora, chi era vivo non c’era più; bastavano pochi giorni perché i vivi che affollavano strade e mercati si affollassero in cataste di morti che nessuno riusciva più a seppellire.
L’aggressione sembrava venire da una natura ostile, misteriosa, dietro la quale si vedeva solo la mano di Dio.
Oggi lo sappiamo. Ci furono cause naturali (i topi, il bacillo della peste): sono le conoscenze accumulate dopo il 1348. Ma tutto questo allora era sconosciuto.
Testimoni inconsapevoli e vittime di una guerra tra altre specie animali, gli esseri umani non avevano allora nessuna nozione delle cause dell’epidemia.
Precedenti  ce  n’erano  stati:  una «pandemia» di portata simile c’era stata nei secoli bui della scomparsa dell’Impero d’Occidente e della crisi di quello Oriente; cominciata in Africa lungo il Nilo nel 541, aveva colpito il mondo mediterraneo seguendo i percorsi delle navi bizantine e aveva     risalito l’interno dell’Europa, estinguendosi solo verso la metà del secolo VIII. Ma il


       Flagello era conosciuto soprattutto attraverso la Bibbia, come arma punitrice di Dio. E a


 Dio ci si rivolse per cercare aiuto. Papa Clemente VI indisse un pellegrinaggio    straordinario a Roma nel 1348. E in tutte le città si moltiplicarono allora le preghiere, le processioni, gli atti di espiazione per gli sconosciuti peccati che avevano scatenato l’ira divina. Processioni, pellegrinaggi: modi straordinariamente efficaci per propagare il contagio, perché facevano aumentare i contatti tra gli uomini.
Ma chi portava la morte? Questa è una delle cose che oggi sappiamo. Era un nemico minuscolo, invisibile: pochi millesimi di millimetro. Un germe insediato nel sangue dei ratti neri, diffuso dal morso delle pulci. La pulce parassita – la Xenopsilla cheopis


assorbe col sangue del ratto il germe della peste e lo trasmette agli esseri umani eventualmente presenti nel raggio della sua azione.
(A. Prosperi, Dalla Peste Nera alla guerra dei Trent’anni)


La beffa

Calandrino e l’elitropia
  
A Firenze viveva un pittore squattrinato, di nome Calandrino, sempliciotto e un po’ tonto, che frequentava due altri pittori, di nome l’uno Bruno e l’altro Buffalmacco, uomini scaltri ed avveduti che amavano divertirsi alle sue spalle.
Al tempo di questi tre pittori a Firenze viveva anche un giovane, astuto e bello, chiamato Maso del saggio, il quale, avendo sentito che Calandrino era un sempliciotto, decise di fargli una beffa. Avendolo per caso trovato nella chiesa di san Giovanni e vedendolo intento a guardare le pitture e gli intarsi che ornavano il tabernacolo, pensò di giocargli un tiro birbone. Informato un suo compagno di ciò che intendeva fare, insieme s’accostarono a Calandrino e, facendo finta di non accorgersi di lui, incominciarono a parlare dei poteri straordinari di alcune pietre, delle quali Maso discuteva come se fosse un grande esperto. Calandrino si incuriosì e, volendo saperne di più, si unì ai due.
Così venne a sapere da Maso che la maggior parte di quelle pietre si trovava in Berlinzone, terra dei baschi, nella contrada di Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce e si può comprare un’oca per un denaro ricevendo un papero in omaggio; e apprese anche che nel paese  di Bengodi vi era una montagna tutta di parmigiano grattugiato, sopra la quale vivevano persone che facevano maccheroni e ravioli dalla mattina alla sera, li cuocevano nel brodo di cappone e poi li gettavano giù, e chi più ne pigliava più ne mangiava; e vicino alla montagna scorreva un fiumicello di vino, del migliore che mai si bevve.“Oh!, disse Calandrino, questo è proprio un buon paese; ma dimmi, cosa fanno con i capponi che cuociono?”
Rispose Maso: “Se li mangiano tutti i baschi.” Disse allora Calandrino: “Tu ci sei mai stato?”
Maso rispose: “Figurati, ci sono stato almeno mille volte.” E Calandrino: “E quanto è distante?”
E Maso: “Millanta miglia, la bagga ti piglia, piripìn bazum logopotto.”
Calandrino non capì quasi niente: “Dunque dev’ essere più lontano degli Abruzzi.”
“Sì , rispose Maso, sì, è cavelle cavelle, dirticomasio, laggiù, lontan lontano, articomasio zabum cacaloffo.”
Siccome Calandrino, sempliciotto, non stava capendo nemmeno metà di quelle parole, pensava che Maso fosse un grande esperto, un dottorone molto istruito, che sapeva parlare difficile e al quale perciò si doveva prestare la massima fiducia. Dunque disse: “È troppo lontano, questo  posto: ma se fosse più vicino, ben ti dico che io ci verrei una volta con te, pur di vedere quei maccheroni cadere dall’alto e farmene una scorpacciata. Ma dimmi, nel nostro paese non ci sono le pietre di cui parlavate prima?”
Maso rispose: “Sì, vi si trovano due pietre che hanno poteri straordinari. Il primo tipo di pietra è il macigno di Settignano e di Monte Morello, da essa si ricavano le macine con cui si fa la farina. È una pietra che i baschi apprezzano molto più degli smeraldi, perché ne hanno poca, mentre noi non sappiamo che farcene. Loro invece, guarda un po’ come è mai fatto il mondo, hanno gli smeraldi a mucchi nelle campagne, che se ne servono per ghiaia nei giardini. Se gli potessimo portare un po’ di macine ai baschi, legate come vogliono loro, chissà gli smeraldi che ci darebbero».
“E come le vogliono legate?”, s’informò Calandrino.


“Infilate in una corda come anelli, ma prima di venir forate al centro”. Calandrino restò un poco pensoso,senza capirci niente, poi chiese:
“Qual è l’altra pietra di cui parlavi?”
“L’altra è una pietra che noi esperti chiamiamo “elitropia”, pietra veramente eccezionale perché chi la porta diventa invisibile”, rispose Maso.
E Calandrino: “Che potere meraviglioso! Ma dalle nostre parti non si trovano queste elitropie”? Maso gli rispose  che, cercando bene, le elitropie si potevano trovare anche nel Mugnone, il torrente che scorreva vicino alla porta di san Gallo.
E Calandrino, molto interessato: “Di che grossezza è questa pietra? E di che colore è?” Rispose Maso: “E’ di varie grossezze, ma tutte sono più o meno di colore nero.”
Calandrino, dopo aver preso nota mentalmente di tutte queste notizie, fece finta d’avere altro da fare e si allontanò da Maso, col proponimento segreto di andare da solo a cercare l’elitropia. Tuttavia decise di informare Bruno e Buffalmacco, perché erano i suoi migliori amici. Questi due lavoravano nel monastero di Faenza. Calandrino li raggiunse tutto eccitato e disse loro: “ Amici, credetemi, abbiamo l’opportunità di diventare gli uomini più ricchi di Firenze, grazie a ciò che ho appreso da un uomo dotto e degno di fede, che cioè nel Mugnone si trova una pietra dai poteri veramente straordinari che rende invisibile chiunque la porti addosso. Dobbiamo subito andare a cercarla e trovarla prima di chiunque altro, così con quella pietra in tasca ce ne andremo al tavolo dei banchieri, che sono sempre carichi di monete, e potremo arraffare tutti i soldi che vorremo. Diventeremo ricchi in quattro e quattr’otto, senza bisogno di passare la vita ad imbrattare le mura con le nostre pitture.
Bruno e Buffalmacco, sentendo costui, si misero a ridere fra se medesimi e, guardandosi furbescamente l’uno con l’altro, fecero finta di essere molto meravigliati ed interessati. Buffalmacco domandò che nome avesse questa pietra. Ma a Calandrino quel nome difficile era uscito di mente, perciò rispose: “Che dobbiamo farcene del nome visto che di quella pietra conosciamo il potere? Secondo me dobbiamo andare subito a cercarla, senza perdere tempo in chiacchiere inutili”.
“Bene, disse Bruno, com’è fatta?”
Calandrino rispose: “Ce ne sono di tutte le forme ma tutte son quasi nere; perciò se raccogliamo tutte le pietre nere in cui ci imbattiamo, prima o poi finiremo col raccoglierla. Non perdiamo dunque tempo, andiamo.”
Su suggerimento di Bruno, i tre decisero di aspettare la domenica successiva, quando c’erano meno probabilità di incontrare altre persone, per andare in cerca dell’elitropia.
Calandrino con impazienza aspettò la domenica mattina. Quando giunse, si alzò all’alba e, chiamati i compagni, dopo essere usciti per la porta di San Gallo ed essere discesi nel Mugnone, cominciarono ad andare in giù cercando la pietra. Calandrino era il più volenteroso, saltava di qua e di là: dovunque scorgeva una pietra nera si lanciava e la raccoglieva. I compagni gli andavano appresso, raccogliendo anche loro qualche sasso; ma Calandrino andava veloce al punto che riempì prima il grembo della sua veste e poi il mantello, alzandolo per le punte.
All’ora di pranzo, Calandrino era bello carico di pietre. Allora, secondo il piano prestabilito, Bruno disse a Buffalmacco: “Calandrino dov’ è?” Buffalmacco, che se lo vedeva accanto, girandosi da ogni lato e facendo finta di non veder nessuno, rispose: “Boh, è scomparso! Eppure poco fa era qui davanti a noi”.
Disse allora Bruno: “Mi sembra certo che egli è ora a casa a pranzare tranquillamente, e che ci ha lasciati nella pazzia d’andar cercando le pietre nere giù per il Mugnone.”
“Ci ha fatto uno scherzo studiato proprio per bene, disse allora Buffalmacco, Calandrino ci ha condotti qui con la scusa delle pietre magiche e poi se l’è svignata . Solo due sciocchi come noi potevano credergli”.


Calandrino, udendo queste parole, immaginò che l’elitropia gli fosse venuta alle mani e che, grazie ai suoi poteri, i due non potessero più vederlo. Pieno di gioia, senza dir loro niente, pensò di tornare a casa.
Vedendo ciò, Buffalmacco disse a Bruno: “Ce ne andiamo pure noi?”
Bruno rispose: “Andiamocene; ma io giuro su Dio che Calandrino non me la farà più; e se io gli  fossi vicino come lo sono stato per tutta la mattina, io gli tirerei una pietra in testa, che egli si ricorderebbe forse un mese di questa beffa”; e il dire queste parole e lanciare una pietra in testa a Calandrino fu un solo attimo. Calandrino, sentendo il dolore, cominciò a soffiare e a fare smorfie ma stette zitto e si allontanò un po’, toccandosi la testa.
Buffalmacco, rigirando in mano una delle pietre che aveva raccolto, disse a Bruno: “La vedi questa pietra? Se calandrino fosse qui gliela tirerei nella schiena” e tirò una gran sassata colpendo il povero Calandrino nella schiena. Per farla breve, con questo sistema i due continuarono a prendere a sassate Calandrino su per il Mugnone, fino alla porta di San Gallo. Poi, dopo aver gettato a terra le pietre che ancora avevano, si fermarono a parlare con alcune guardie che, informate dai due della beffa che stavano giocando al loro amico, fecero anche loro finta di non vedere Calandrino.
Calandrino così, dolorante per le sassate ma tutto contento perché credeva di essere diventato invisibile, giunse a casa sua. La fortuna fu favorevole alla beffa, perché per strada incontrò poche persone e nessuno gli rivolse la parola. Calandrino entrò dunque a casa, carico di pietre. La moglie, che si chiamava monna Tessa, donna bella e valente, cominciò a rimproverarlo perché rincasava così tardi, quando tutti gli altri stavano già pranzando.
Sentendo il rimprovero, Calandrino capì che non era più invisibile, e allora pieno di cruccio e di dolore cominciò a gridare: “Donna, tu m’hai rovinato, ma giuro su Dio che te la farò pagare!” Salì  al piano superiore, scaricò le molte pietre che si era portato e, molto adirato, corse verso la moglie, la prese per le trecce, se la gettò ai piedi e cominciò a pestarla. Le diede così tanti pugni e calci che non le lasciò un solo osso intero, senza farsi impietosire da suppliche e pianti.
Buffalmacco e Bruno avevano seguito Calandrino fino a casa e, giunti alla sua porta, sentirono che stava pestando la moglie. Allora lo chiamarono. Calandrino tutto sudato, rosso, affannato si affacciò alla finestra e li pregò di entrare. Essi, mostrandosi alquanto turbati, lo seguirono al piano superiore e videro la sala piena di pietre e da un lato la donna scapigliata, stracciata, tutta livida e rotta nel viso, che dolorosamente piangeva.
Calandrino, ansimando, si buttò su una sedia.
I due, dopo che ebbero un po’ guardato la scena, dissero: “Che significa questo, Calandrino? vuoi tu fare un muro, con tutte queste pietre che hai qui ammassato?” e aggiunsero: “E monna Tessa che ha? Sembra che tu l’abbia picchiata: che è successo?” Calandrino, affaticato dal peso delle pietre che aveva trasportato, dalla rabbia con la quale aveva picchiato la donna e pieno di stizza per non essere più invisibile, non riusciva nemmeno a rispondere. Buffalmacco allora rincominciò: “Calandrino, se tu eri arrabbiato per altri motivi, non te la dovevi prendere con noi. Ci hai portato nel Mugnone per cercare la pietra magica e ci hai abbandonato lì come due fessi. Questa è davvero l’ultima che ci combini!”.
A queste parole Calandrino, sforzandosi, rispose: “Amici, non ve la prendete, le cose stanno diversamente da come pensate. Me sventurato! Avevo trovato quella pietra…” E raccontò loro tutto quello che era successo lungo il Mugnone, mostrando anche i lividi per le sassate che aveva ricevuto; e poi seguitò: “E vi dico che i guardiani non mi hanno visto e, oltre a questo, ho trovato per la via alcuni miei compari e amici, i quali sempre sono soliti rivolgermi la parola e invitarmi a bere, che non mi hanno visto. La pietra funzionava dunque a meraviglia. Alla fine, giunto qui a casa, questo diavolo di femmina maledetta mi si parò davanti e mi ha visto, perché le femmine, come voi sapete, fanno perdere il potere a ogni cosa: ed io, che mi potevo dire il più fortunato


uomo di Firenze, sono diventato il più sventurato; e per questo l’ho tanto battuta quanto io ho potuto e non so che cosa mi trattenga dal dargliene ancora”. E, di nuovo furioso, si voleva alzare per tornare a battere da capo la povera donna.
Buffalmacco e Bruno, udendo queste cose facevano finta di meravigliarsi forte e spesso confermavano quello che Calandrino diceva, ma avevano una così gran voglia di ridere che quasi scoppiavano; ma vedendo Calandrino alzarsi per battere un’altra volta la moglie, lo bloccarono, dicendo che la poverina non aveva alcuna colpa, e che la colpa era tutta sua, di Calandrino, perché, pur sapendo che le femmine facevano perdere ogni potere alle pietre, non le aveva raccomandato di evitare di apparirgli davanti, quel giorno. E dopo molti discorsi, non senza gran fatica riuscirono a riconciliarlo con la moglie. Poi se ne andarono lasciandolo malinconico e stanco, con la casa piena di inutili pietre.

Laboratorio


Elenca tutti personaggi principali di questa novella e spiega brevemente il loro ruolo Maso usa con Calandrino espressioni strane e “difficili”, secondo te perché lo fa?
Cosa c’è, secondo Maso, nel paese di Bengodi?

Ora immagina il tuo paese di Bengodi (esagera, mettici dentro tutto quello che la tua fantasia e i tuoi desideri più “sfrenati” ti suggeriscono).

DATA CONSEGNA COMPITI: 
IIA MARTEDI 10 MARZO 2020
IIH GIOVEDI 12 MARZO 2020

Buon lavoro
La prof 😀

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