Cari ragazzi
Iniziamo (per la IIH) e continuiamo (per la IIA) il nostro studio del Decameron leggendo altre novelle oltre a quelle già analizzate in classe. Prima però facciamo un breve ripasso leggendo (leggi studiando 😀) il materiale qui di seguito.
Il Decameron è l'opera principale di Giovanni Boccaccio, scrittore
fiorentino che nacque nel 1313 e morì nel 1375. Boccaccio fu testimone durante
la sua giovinezza della pestilenza che
afflisse Firenze provocando un numero spaventoso di morti. Questo episodio
tragico della sua vita verrà riportato nel Decameron ed è il motore della vicenda. La storia infatti ha come protagonisti dieci giovani (sette donne e tre uomini) che, per fuggire la peste, si rifugiano in campagna dove uno di loro ha un palazzo. Qui per passare il tempo raccontano ogni giorno dieci novelle, una a testa. La durata del soggiorno è di dieci giorni (Decameron = dieci giorni:"deca" in greco vuol dire dieci; "emeron" invece vuol dire giorno), per cui le novelle saranno in totale cento.
Come si organizza la brigata dei dieci giovani:
Ogni giorno i dieci giovani eleggono un re o una regina che ha il compito
di fissare il tema della giornata al quale tutti gli altri narratori dovranno
attenersi. Al solo Dioneo, per la sua giovane età, è concesso di non rispettare
il tema fissato.
La
storia dei dieci giovani che sfuggono alla peste e decidono di svagarsi
raccontando delle storie è dunque la
cornice narrativa, cioè una storia che introduce e collega tutti gli altri
racconti.
Cosa leggeremo
Leggeremo
un passo della cornice narrativa e tre delle cento novelle, intitolate
rispettivamente Federigo degli Alberighi, Calandrino e l’elitropia,
Il maiale imbolato.
Focus: l’autor
Giovanni
Boccaccio nacque nel 1313 a Certaldo
(o a Firenze). Figlio illegittimo di
un ricco mercante e di una donna di umile condizione sociale, quando compì
quattordici anni, il padre lo prese presso di sé e lo condusse a Napoli, per educarlo e istruirlo nell’arte della mercatura. Il soggiorno
napoletano fu un periodo molto felice per
il giovane Boccaccio, che grazie alle conoscenze del padre poté frequentare la
migliore società: partecipò così a feste di corte, si appassionò di letteratura
e di poesia, ebbe avventure amorose, compose varie opere in versi e in prosa.
Questa vita spensierata e benestante si interruppe bruscamente nel 1340, quando gli affari del padre
subirono un tracollo. In seguito a questo fallimento
economico Giovanni Boccaccio e suo padre tornarono a Firenze, dove
condussero una vita molto modesta. La situazione peggiorò ulteriormente nel 1348: quell’anno, infatti, Firenze fu
colpita da una tremenda epidemia di peste
che fece migliaia di morti, tra i quali anche il padre di Boccaccio. In
questa drammatica situazione Boccaccio iniziò la composizione del suo
capolavoro, il Decameron, che ebbe
subito vasta diffusione.
Dopo il
1350 la vita di Boccaccio subì una svolta.
Grazie alla
sua fama di scrittore ottenne dal Comune fiorentino alcuni importanti incarichi diplomatici che lo portarono
a visitare varie città italiane e a conoscere personalità prestigiose: tra
esse, il poeta Francesco Petrarca, cui si legò di una duratura amicizia e con cui condivise l’amore per gli autori
latini e per i manoscritti antichi.
Nel 1373 il
Comune di Firenze gli diede l’incarico di leggere e commentare pubblicamente la
Commedia di Dante Alighieri, opera che Boccaccio definì “divina” per la sublime
perfezione dello stile e per l’importanza dei contenuti.
Le letture
pubbliche ebbero molto successo ma si
interruppero a causa della salute
malferma di Boccaccio, che morì nel 1375
a Certaldo.
L’opera principale: il Decameron
Che cos’è il Decameron. Il Decameron
(in greco, “dieci giornate”) è una raccolta
di cento novelle di argomenti diversi e di varia lunghezza, composta da
Giovanni Boccaccio tra il 1349 e il 1351. È un’opera di straordinaria
importanza per la letteratura italiana perché introdusse il genere della
novella (o racconto, come lo chiamiamo oggi) sino ad allora sconosciuto, e
perché presenta ambientazioni e personaggi ispirati
alla vita
reale e quotidiana del Trecento. Le cento novelle sono collegate tra loro da
una storia-contenitore, detta a “cornice”: in seguito all’epidemia di
peste che ha colpito Firenze, dieci
giovani di buona famiglia (sette ragazze e tre ragazzi) decidono di
allontanarsi dal pericolo del contagio trovando rifugio in una bella villa di campagna. Per dieci giorni
durante le ore
più calde, i ragazzi si ritrovano nel giardino della villa e raccontano ognuno
una storia: perciò, alla fine, le novelle sono cento.
Lo sfondo storico delle novelle.
Le novelle
del Decameron sono ispirate alla vita
quotidiana e materiale dell’Italia del Trecento: molte, infatti, sono
ambientate nelle grandi città dell’epoca,
come ad esempio Firenze e Napoli, di cui lo scrittore descrive quartieri,
vicoli, piazze e luoghi di ritrovo; i personaggi sono ugualmente ispirati alla
realtà e si trovano coinvolti in situazioni molto diverse: a volte comiche, a
volte tragiche, a volte sentimentali. L’ambientazione
realistica è una grande novità del Decameron: sino a quel momento, infatti,
personaggi e situazioni tratti dalla contemporaneità erano ritenuti indegni di
comparire nelle opere letterarie importanti.
I temi.
Principale obiettivo del Decameron è
divertire. Le
novelle sono ricche
di battute,
colpi di scena,
avventure mozzafiato, amori impossibili, scherzi e tranelli: tutti ingredienti
indispensabili per appassionare e avvincere i lettori.
Il divertimento, però, è solo un aspetto dell’opera;
il Decameron offre anche molti spunti di
riflessione e di conoscenza sia della mentalità
dell’epoca, sia di vizi e di virtù tipiche dell’animo umano.
Tra le
qualità umane valorizzate da Boccaccio, la principale è l’intelligenza (la saviezza), a patto che essa sia accompagnata
da gentilezza, decoro e cortesia; in caso contrario, l’intelligenza diventa
egoismo, meschinità, indifferenza. L’uomo intelligente ha l’umiltà di imparare qualcosa anche
quando la Fortuna (cioè il caso
imprevedibile e bizzarro) gli complica la vita. Al contrario, il difetto
peggiore per Boccaccio è la stupidità:
chi è stupido e credulone merita di
essere preso in giro, beffato e danneggiato perché non fa uso dell’intelligenza
La cornice narrativa
Dall’Introduzione al Decameron (la parte in corsivo è il testo
originale di Boccaccio)
Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del
Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella
egregia città di Fiorenza, oltre a ogn'altra italica bellissima, pervenne la
mortifera pestilenza…,
…la quale,
forse mandata da Dio per punire i nostri peccati, mieteva molte vittime. Tutti
i provvedimenti che si presero furono inutili: la città fu ripulita, si fecero
processioni per supplicare i santi ma il contagio non cessava di diffondersi.
Quando la peste contagiava qualcuno, all’inguine o sotto le ascelle gli
spuntava un rigonfiamento, delle dimensioni di una mela o di un uovo, che il
popolo chiamava “gavocciolo”. In una fase più acuta dell’epidemia i gavoccioli
presero a spuntare in tutte le parti del corpo. A volte invece di questi
rigonfiamenti si manifestavano macchie nere o livide sulle braccia, sulle cosce
e su tutto il corpo, ad alcuni grandi e rade, ad altri minute e fitte. Ed
esattamente come i gavoccioli, anche queste macchie erano, per chi se le vedeva
comparire addosso, indizio di morte certa.
Questa pestilenza fu
terribile: si avventava sui sani come il
fuoco fa con le cose secche e unte quando gli sono molto vicine. Non
soltanto il parlare e frequentare gli infermi trasmetteva ai sani la malattia,
ma anche il semplice toccare panni contagiati o qualunque altra cosa fosse
stata
adoperata o sfiorata da chi già era
stato contagiato. La pestilenza fu così forte che passava anche dagli uomini
agli animali: le bestie che toccavano le cose di qualcuno morto a causa del
contagio morivano in poco tempo.
Io stesso
ho assistito a questa scena: due porci si misero, secondo il loro costume, a
rivoltare col grifo e con i denti degli stracci che si trovavano in mezzo alla
via, appartenuti ad un appestato. Nel giro di qualche ora entrambi caddero
stecchiti sopra quegli stessi stracci, come se fossero stati avvelenati.
Laboratorio
Rispondi su un
file di word
In che anno scoppia la peste a Firenze? Cosa sono i
“gavoccioli”?
Oltre ai gavoccioli, cosa poteva apparire sul corpo di
chi aveva preso il contagio? A quale scena assiste l’autore?
Ricopia la frase nel testo
evidenziata in grassetto:
.........................................................................................................................
Si tratta di una similitudine,
ossia di un paragone introdotto da “come”, molto efficace perché rende bene la
velocità con cui la pestilenza si diffondeva a Firenze.
Aiutandoti con il dizionario spiega
il significato delle seguenti espressioni: Macchie livide; Indizio di morte
certa
Adesso prova a riscrivere in Italiano moderno
l’inizio del brano (è la parte in corsivo)
Focus: Uomini e topi
Leggiamo
questa pagina scritta dallo storico A. Prosperi
Tra il 1347 e il 1351 un flagello biblico si abbatté sull’Europa: la
Peste Nera. La
L’aggressione sembrava venire da una natura ostile, misteriosa, dietro la
quale si vedeva solo la mano di Dio.
Oggi lo sappiamo. Ci furono cause naturali (i topi, il bacillo della
peste): sono le conoscenze accumulate dopo il 1348. Ma tutto questo allora era
sconosciuto.
Testimoni inconsapevoli e vittime di una guerra tra altre specie animali,
gli esseri umani non avevano allora nessuna nozione delle cause dell’epidemia.
Precedenti ce
n’erano stati: una
«pandemia» di portata simile c’era stata nei secoli bui della scomparsa dell’Impero d’Occidente e della crisi di
quello Oriente; cominciata in Africa lungo il Nilo nel 541, aveva colpito il
mondo mediterraneo seguendo i percorsi delle navi bizantine e aveva risalito l’interno dell’Europa,
estinguendosi solo verso la metà del secolo VIII. Ma il
Flagello era conosciuto soprattutto attraverso la Bibbia,
come arma punitrice di Dio. E a
Dio ci si rivolse per cercare aiuto.
Papa Clemente VI indisse un pellegrinaggio straordinario a Roma nel 1348. E in tutte le
città si moltiplicarono allora le preghiere, le processioni, gli atti di
espiazione per gli sconosciuti peccati che avevano scatenato l’ira divina.
Processioni, pellegrinaggi: modi
straordinariamente efficaci per propagare il contagio, perché facevano
aumentare i contatti tra gli uomini.
Ma chi portava la morte? Questa è una delle cose che oggi sappiamo. Era
un nemico minuscolo, invisibile: pochi millesimi di millimetro. Un germe
insediato nel sangue dei ratti neri, diffuso dal morso delle pulci. La pulce
parassita – la Xenopsilla cheopis –
assorbe col sangue del ratto il germe
della peste e lo trasmette agli esseri umani eventualmente presenti nel raggio
della sua azione.
(A. Prosperi, Dalla
Peste Nera alla guerra dei Trent’anni)
La beffa
Calandrino e l’elitropia
A Firenze
viveva un pittore squattrinato, di nome Calandrino, sempliciotto e un po’ tonto,
che frequentava due altri pittori, di nome l’uno Bruno e l’altro Buffalmacco,
uomini scaltri ed avveduti che amavano divertirsi alle sue spalle.
Al tempo
di questi tre pittori a Firenze viveva anche un giovane, astuto e bello,
chiamato Maso del saggio, il quale, avendo sentito che Calandrino era un
sempliciotto, decise di fargli una beffa. Avendolo per caso trovato nella
chiesa di san Giovanni e vedendolo intento a guardare le pitture e gli intarsi
che ornavano il tabernacolo, pensò di giocargli un tiro birbone. Informato un
suo compagno di ciò che intendeva fare, insieme s’accostarono a Calandrino e,
facendo finta di non accorgersi di lui, incominciarono a parlare dei poteri
straordinari di alcune pietre, delle quali Maso discuteva come se fosse un grande
esperto. Calandrino si incuriosì e, volendo saperne di più, si unì ai due.
Così venne a
sapere da Maso che la maggior parte di quelle pietre si trovava in Berlinzone,
terra dei baschi, nella contrada di Bengodi, nella quale si legano le vigne con
le salsicce e si può comprare un’oca per un denaro ricevendo un papero in
omaggio; e apprese anche che nel paese
di Bengodi vi era una montagna tutta di parmigiano grattugiato, sopra la
quale vivevano persone che facevano maccheroni e ravioli dalla mattina alla sera,
li cuocevano nel brodo di cappone e poi li gettavano giù, e chi più ne pigliava
più ne mangiava; e vicino alla montagna scorreva un fiumicello di vino, del
migliore che mai si bevve.“Oh!, disse Calandrino, questo è proprio un buon
paese; ma dimmi, cosa fanno con i capponi che
cuociono?”
Rispose Maso: “Se li
mangiano tutti i baschi.” Disse allora Calandrino: “Tu ci sei mai stato?”
Maso rispose: “Figurati, ci
sono stato almeno mille volte.” E Calandrino: “E quanto è distante?”
E Maso: “Millanta miglia, la bagga ti piglia, piripìn
bazum logopotto.”
Calandrino non capì quasi niente: “Dunque dev’ essere più
lontano degli Abruzzi.”
“Sì , rispose Maso, sì, è
cavelle cavelle, dirticomasio, laggiù, lontan lontano, articomasio zabum
cacaloffo.”
Siccome
Calandrino, sempliciotto, non stava capendo nemmeno metà di quelle parole,
pensava che Maso fosse un grande esperto, un dottorone molto istruito, che
sapeva parlare difficile e al quale perciò si doveva prestare la massima
fiducia. Dunque disse: “È troppo lontano, questo posto: ma se fosse più vicino, ben ti dico
che io ci verrei una volta con te, pur di vedere quei maccheroni cadere
dall’alto e farmene una scorpacciata. Ma dimmi, nel nostro paese non ci sono le
pietre di cui parlavate prima?”
Maso
rispose: “Sì, vi si trovano due pietre che hanno poteri straordinari. Il primo
tipo di pietra è il macigno di Settignano e di Monte Morello, da essa si
ricavano le macine con cui si fa la farina. È una pietra che i baschi
apprezzano molto più degli smeraldi, perché ne hanno poca, mentre noi non
sappiamo che farcene. Loro invece, guarda un po’ come è mai fatto il mondo,
hanno gli smeraldi a mucchi nelle campagne, che se ne servono per ghiaia nei
giardini. Se gli potessimo portare un po’ di macine ai baschi, legate come
vogliono loro, chissà gli smeraldi che ci darebbero».
“E come le vogliono legate?”,
s’informò Calandrino.
“Infilate in
una corda come anelli, ma prima di venir forate al centro”. Calandrino restò un
poco pensoso,senza capirci niente, poi chiese:
“Qual
è l’altra pietra di cui parlavi?”
“L’altra è una pietra che noi
esperti chiamiamo “elitropia”, pietra veramente eccezionale perché chi la porta
diventa invisibile”, rispose Maso.
E
Calandrino: “Che potere meraviglioso! Ma dalle nostre parti non si trovano
queste elitropie”? Maso gli rispose che,
cercando bene, le elitropie si potevano trovare anche nel Mugnone, il torrente
che scorreva vicino alla porta di san Gallo.
E Calandrino, molto
interessato: “Di che grossezza è questa pietra? E di che colore è?” Rispose
Maso: “E’ di varie grossezze, ma tutte sono più o meno di colore nero.”
Calandrino,
dopo aver preso nota mentalmente di tutte queste notizie, fece finta d’avere
altro da fare e si allontanò da Maso, col proponimento segreto di andare da
solo a cercare l’elitropia. Tuttavia decise di informare Bruno e Buffalmacco,
perché erano i suoi migliori amici. Questi due lavoravano nel monastero di
Faenza. Calandrino li raggiunse tutto eccitato e disse loro: “ Amici,
credetemi, abbiamo l’opportunità di diventare gli uomini più ricchi di Firenze,
grazie a ciò che ho appreso da un uomo dotto e degno di fede, che cioè nel
Mugnone si trova una pietra dai poteri veramente straordinari che rende
invisibile chiunque la porti addosso. Dobbiamo subito andare a cercarla e
trovarla prima di chiunque altro, così con quella pietra in tasca ce ne andremo
al tavolo dei banchieri, che sono sempre carichi di monete, e potremo arraffare
tutti i soldi che vorremo. Diventeremo ricchi in quattro e quattr’otto, senza
bisogno di passare la vita ad imbrattare le mura con le nostre pitture.
Bruno e
Buffalmacco, sentendo costui, si misero a ridere fra se medesimi e, guardandosi
furbescamente l’uno con l’altro, fecero finta di essere molto meravigliati ed
interessati. Buffalmacco domandò che nome avesse questa pietra. Ma a Calandrino
quel nome difficile era uscito di mente, perciò rispose: “Che dobbiamo farcene
del nome visto che di quella pietra conosciamo il potere? Secondo me dobbiamo
andare subito a cercarla, senza perdere tempo in chiacchiere inutili”.
“Bene, disse
Bruno, com’è fatta?”
Calandrino
rispose: “Ce ne sono di tutte le forme ma tutte son quasi nere; perciò se
raccogliamo tutte le pietre nere in cui ci imbattiamo, prima o poi finiremo col
raccoglierla. Non perdiamo dunque tempo, andiamo.”
Su
suggerimento di Bruno, i tre decisero di aspettare la domenica successiva,
quando c’erano meno probabilità di incontrare altre persone, per andare in
cerca dell’elitropia.
Calandrino
con impazienza aspettò la domenica mattina. Quando giunse, si alzò all’alba e,
chiamati i compagni, dopo essere usciti per la porta di San Gallo ed essere
discesi nel Mugnone, cominciarono ad andare in giù cercando la pietra.
Calandrino era il più volenteroso, saltava di qua e di là: dovunque scorgeva
una pietra nera si lanciava e la raccoglieva. I compagni gli andavano appresso,
raccogliendo anche loro qualche sasso; ma Calandrino andava veloce al punto che
riempì prima il grembo della sua veste e poi il mantello, alzandolo per le punte.
All’ora di
pranzo, Calandrino era bello carico di pietre. Allora, secondo il piano
prestabilito, Bruno disse a Buffalmacco: “Calandrino dov’ è?” Buffalmacco, che
se lo vedeva accanto, girandosi da ogni lato e facendo finta di non veder
nessuno, rispose: “Boh, è scomparso! Eppure poco fa era qui davanti a noi”.
Disse
allora Bruno: “Mi sembra certo che egli è ora a casa a pranzare
tranquillamente, e che ci ha lasciati nella pazzia d’andar cercando le pietre
nere giù per il Mugnone.”
“Ci ha
fatto uno scherzo studiato proprio per bene, disse allora Buffalmacco,
Calandrino ci ha condotti qui con la scusa delle pietre magiche e poi se l’è
svignata . Solo due sciocchi come noi potevano credergli”.
Calandrino,
udendo queste parole, immaginò che l’elitropia gli fosse venuta alle mani e
che, grazie ai suoi poteri, i due non potessero più vederlo. Pieno di gioia,
senza dir loro niente, pensò di tornare a casa.
Vedendo ciò,
Buffalmacco disse a Bruno: “Ce ne andiamo pure noi?”
Bruno
rispose: “Andiamocene; ma io giuro su Dio che Calandrino non me la farà più; e
se io gli fossi vicino come lo sono
stato per tutta la mattina, io gli tirerei una pietra in testa, che egli si
ricorderebbe forse un mese di questa beffa”; e il dire queste parole e lanciare
una pietra in testa a Calandrino fu un solo attimo. Calandrino, sentendo il
dolore, cominciò a soffiare e a fare smorfie ma stette zitto e si allontanò un
po’, toccandosi la testa.
Buffalmacco,
rigirando in mano una delle pietre che aveva raccolto, disse a Bruno: “La vedi
questa pietra? Se calandrino fosse qui gliela tirerei nella schiena” e tirò una
gran sassata colpendo il povero Calandrino nella schiena. Per farla breve, con
questo sistema i due continuarono a prendere a sassate Calandrino su per il
Mugnone, fino alla porta di San Gallo. Poi, dopo aver gettato a terra le pietre
che ancora avevano, si fermarono a parlare con alcune guardie che, informate
dai due della beffa che stavano giocando al loro amico, fecero anche loro finta
di non vedere Calandrino.
Calandrino
così, dolorante per le sassate ma tutto contento perché credeva di essere
diventato invisibile, giunse a casa sua. La fortuna fu favorevole alla beffa,
perché per strada incontrò poche persone e nessuno gli rivolse la parola.
Calandrino entrò dunque a casa, carico di pietre. La moglie, che si chiamava
monna Tessa, donna bella e valente, cominciò a rimproverarlo perché rincasava
così tardi, quando tutti gli altri stavano già pranzando.
Sentendo il
rimprovero, Calandrino capì che non era più invisibile, e allora pieno di
cruccio e di dolore cominciò a gridare: “Donna, tu m’hai rovinato, ma giuro su
Dio che te la farò pagare!” Salì al
piano superiore, scaricò le molte pietre che si era portato e, molto adirato,
corse verso la moglie, la prese per le trecce, se la gettò ai piedi e cominciò
a pestarla. Le diede così tanti pugni e calci che non le lasciò un solo osso
intero, senza farsi impietosire da suppliche e
pianti.
Buffalmacco
e Bruno avevano seguito Calandrino fino a casa e, giunti alla sua porta,
sentirono che stava pestando la moglie. Allora lo chiamarono. Calandrino tutto
sudato, rosso, affannato si affacciò alla finestra e li pregò di entrare. Essi,
mostrandosi alquanto turbati, lo seguirono al piano superiore e videro la sala
piena di pietre e da un lato la donna scapigliata, stracciata, tutta livida e
rotta nel viso, che dolorosamente piangeva.
Calandrino, ansimando, si buttò
su una sedia.
I due,
dopo che ebbero un po’ guardato la scena, dissero: “Che significa questo,
Calandrino? vuoi tu fare un muro, con tutte queste pietre che hai qui
ammassato?” e aggiunsero: “E monna Tessa che ha? Sembra che tu l’abbia
picchiata: che è successo?” Calandrino, affaticato dal peso delle pietre che
aveva trasportato, dalla rabbia con la quale aveva picchiato la donna e pieno
di stizza per non essere più invisibile, non riusciva nemmeno a rispondere.
Buffalmacco allora rincominciò: “Calandrino, se tu eri arrabbiato per altri
motivi, non te la dovevi prendere con noi. Ci hai portato nel Mugnone per
cercare la pietra magica e ci hai abbandonato lì come due fessi. Questa è
davvero l’ultima che ci combini!”.
A queste
parole Calandrino, sforzandosi, rispose: “Amici, non ve la prendete, le cose
stanno diversamente da come pensate. Me sventurato! Avevo trovato quella
pietra…” E raccontò loro tutto quello che era successo lungo il Mugnone,
mostrando anche i lividi per le sassate che aveva ricevuto; e poi seguitò: “E
vi dico che i guardiani non mi hanno visto e, oltre a questo, ho trovato per la
via alcuni miei compari e amici, i quali sempre sono soliti rivolgermi la
parola e invitarmi a bere, che non mi hanno visto. La pietra funzionava dunque
a meraviglia. Alla fine, giunto qui a casa, questo diavolo di femmina maledetta
mi si parò davanti e mi ha visto, perché le femmine, come voi sapete, fanno perdere il potere a ogni cosa:
ed io, che mi potevo
dire il più fortunato
uomo di
Firenze, sono diventato il più sventurato; e per questo l’ho tanto battuta
quanto io ho potuto e non so che cosa mi trattenga dal dargliene ancora”. E, di
nuovo furioso, si voleva alzare per tornare a battere da capo la povera donna.
Buffalmacco e Bruno,
udendo queste cose facevano finta di meravigliarsi forte e spesso confermavano
quello che Calandrino diceva, ma avevano una così gran voglia di ridere che
quasi scoppiavano; ma vedendo Calandrino alzarsi per battere un’altra volta la
moglie, lo bloccarono, dicendo che la poverina non aveva alcuna colpa, e che la
colpa era tutta sua, di Calandrino, perché, pur sapendo che le femmine facevano
perdere ogni potere alle pietre, non le aveva raccomandato di evitare di
apparirgli davanti, quel giorno. E dopo molti discorsi, non senza gran fatica
riuscirono a riconciliarlo con la moglie. Poi se ne andarono lasciandolo
malinconico e stanco, con la casa piena di inutili pietre.
Laboratorio
Elenca tutti personaggi principali di questa novella e
spiega brevemente il loro ruolo Maso usa con Calandrino espressioni strane e
“difficili”, secondo te perché lo fa?
Cosa c’è, secondo Maso, nel paese di Bengodi?
Ora immagina il tuo paese di Bengodi (esagera,
mettici dentro tutto quello che la tua fantasia e i tuoi desideri più
“sfrenati” ti suggeriscono).
DATA CONSEGNA COMPITI:
IIA MARTEDI 10 MARZO 2020
IIH GIOVEDI 12 MARZO 2020
Buon lavoro
La prof 😀
Buon lavoro
La prof 😀
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